Arrivati al tramonto della saga young adult più iconica e spartiacque dell’ultimo decennio, tocca fare i dovuti distinguo. Siamo alla quarta tranche, la seconda parte della trasposizione dal libro più duro, ma anche con meno appeal cinematografico, della trilogia firmata Suzanne Collins.

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Se i primi due Hunger Games, che ponevano il loro centro pulsante nel campo sanguinoso e infido dell’Arena, erano specularmente strutturati e dotati di un climax sapiente e costruito in maniera immediatamente apprendibile anche da un pubblico di non fan, di profani, Il canto della rivolta – Parte 1 aveva sterzato, rallentando l’azione in favore di un segmento preparatorio, più controllato, che si prendeva i suoi tempi – letterari, riflessivi, quasi contemplativi – e si concentrava sulla psicologia della protagonista, sul backstage di una ribellione il cui motore portante faceva leva sulla propaganda, sulla promozione di un’immagine simbolica, sullo sfruttamento mediatico dell’iconicità di Katniss Everdeen, eroina riluttante come nessun’altra, forte della sua inadeguatezza e, per questo, rappresentativa di un bisogno di autonomia e libero pensiero pur nel contesto della giustizia, sul podio dei buoni.

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Figura ancora più interessante che nei precedenti, dinamici “episodi”, è la Katniss di Il canto della rivolta; ma la branca iniziale della sua ultima avventura si posizionava radicalmente come ramificazione, come prodotto inscindibile dal suo prima e, soprattutto, dal suo dopo. Ovvero questa Parte 2, che porta su di sé i pregi – qui rinforzati – del predecessore, ma ne esaspera e definisce esplicitamente i difetti endemici.

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Il discorso è, a questo punto, pronosticabile e presumibilmente invariabile anche per le future conclusioni di altri franchise simili (Maze Runner, The Divergent Series). Come oggetto seriale, Il canto della rivolta – Parte 2 è un regalo perfetto ed efficace per tutti i suoi “amanti”: fedele al romanzo, ne asciuga i momenti più espositivi e le ripetitività, non ne accelera i percorsi determinanti e ne rende credibili le tappe (il risveglio identitario di Peeta, un Josh Hutcherson davvero convincente), si conserva un momento di illuminazione per ogni personaggio, esalta le sequenze topiche (il gran finale a sorpresa) e le frasi cult (“Vero o falso?”), non snatura le realtà individuali e si accomiata prendendosi i giusti tempi, di ritorno alla vita e di carezzevole congedo. Praticamente, un manuale su come tirare a sufficienza le fila di una saga senza dimenticare per strada i frammenti che la compongono e che sono stati issati continuativamente nei tre precedenti capitoli. Capitoli, appunto.

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Perché invece il problema di Il canto della rivolta è che è inscindibile dal suo intero: come film a sé stante, come oggetto cinematografico autonomo, non regge. Non inizia: ri-comincia, parla ai suoi madrelingua, non ha un’immediata e indipendente, propria, singola connessione con lo spettatore X; se manca l’immersione nel mondo che mette in scena, è automatico che ce ne si senta esclusi, che l’impedimento sia così grosso da impedire di apprezzarne il decorso narrativo (che non ha, appunto, un punto di partenza nella pellicola stessa) e limitarsi ad ammirare l’interpretazione della sempre impeccabile Jennifer Lawrence e la maturità dei temi in gioco. Ma il gusto della visione si ferma qui, è incompleto, quasi respingente. Francis Lawrence, buon mestierante, accantona qualsiasi sguardo e si dà completamente alle aspettative e all’amore degli appassionati. Al resto degli astanti, rimangono le briciole.



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